La vetta più alta di questo incredibile ambiente è quella di Godenzo, la cui cima si trova lungo la grande dorsale appenninica che divide la penisola italica; e da questo punto, al confine fra le province di Firenze, Arezzo e Forlì, si diparte l'orografìa del nostro territorio.
Questa parte della Montagna Fiorentina corrisponde grossomodo a quella del macigno e, in minor misura, della marnoso-arenacea, formazioni rocciose che caratterizzano la maggior parte dei rilievi della zona.
Questi ammassi rocciosi si sono formati sui fondali marini in conseguenza delle frane che periodicamente interessano la scarpata continentale; seguendo la deriva dei continenti sono progressivamente emersi e hanno dato origine ai rilievi della Montagna Fiorentina. Nei pressi del monte Falterona, a seguito dell'incontro fra queste due formazioni, e la conseguente la sovrapposizione di una sull'altra, si sono venuti a formare i rilievi di maggior altezza del territorio e l'ambiente si presenta con le caratteristiche più “montane": nei dintorni di San Godenzo si osservano infatti versanti scoscesi, pareti rocciose e profonde valli dove scorrono torrenti che precipitano con imponenti cascate. Sulle quote più alte si ritrova poi una flora particolarissima, caratterizzata da una serie di endemismi unici che hanno portato l'ente Parco Nazionale a proteggere la zona con una tutela integrale: sul versante nord del monte Falco e del monte Falterona è in vigore il totale divieto di accesso senza autorizzazione. Vi sopravvive infatti un ecosistema particolarmente delicato, perché una parte delle essenze che si trovano sulle cime di questi due monti appartiene a quelli che in Appennino si definiscono “fossili glaciali": piante che durante l'ultima glaciazione erano diffuse su tutto il territorio e che, con l'innalzarsi delle temperature, sono rimaste confinate in aree estremamente ristrette. Alla fine della primavera e agli inizi dell' estate si assiste a fioriture tipiche dell'ambiente alpino, come la Gentiana verna, l’Anemone narcisiflora, la Tozzia alpina, la Saxifraga paniculata e in alcune radure esposte a nord si trova il mirtillo rosso (Vaccinium vitis idaea).
Spostandosi invece dalla valle di San Godenzo verso occidente si può osservare un graduale attenuarsi di queste caratteristiche, il paesaggio è più dolce, sia per le intrinseche peculiarità della formazione geologica del macigno, sia perché ci stiamo allontanando dalla zona in cui ci sono state le più forti tensioni tettoniche: i versanti sono meno ripidi e le valli tendono ad allargarsi. Anche le faglie diventano un fenomeno meno frequente, e le caratteristiche scarpate che contrassegnano la zona d'incontro delle formazioni sono generalmente più rare e di minore altezza. Le forre lungo il corso dei torrenti sono assai meno profonde e incassate, e anche le cascate non raggiungono più l'altezza delle altre.
Dal monte Falco e dal monte Falterona, situati lungo la dorsale appenninica,si originano due distinti sistemi orografici: uno sparti acque minore più o meno parallelo alla catena montuosa da cui si origina, e uno maggiore che, con andamento antiappenninico, va a formare il Monte Secchieta e il Prato Magno. Il crinale minore, con andamento appenninico, costituisce lo spartiacque fra i torrenti dei territori di San Godenzo e quelli del bacino di Londa, e va a morire nei pressi di Dicomano, dove le acque dei torrenti nate dal Monte Falterona confluiscono nel fiume Sieve; l’altra dorsale invece costituisce dapprima lo spartiacque fra il casentino e la val di Sieve, poi tra lo stesso Casentino e il Valdarno. Proseguendo lungo questo sistema montuoso, oltrepassato il valico della Croce ai Mori con la strada statale che collega Londa e Stia, si incontrano la valle di Pomino e del torrente Rufina, la Consuma, la valle del torrente Vicano con il paese di Pelago. L’escursione continua salendo la cima del Monte Secchieta, e attraversando la foresta di Vallombrosa che copre il versante fiorentino della montagna; dai 1149m della vetta si prosegue lungo il crinale, si incontra il complesso demaniale della foresta di Sant Antonio, si previene in fine al crinale del Prato Mgno che prosegue fino al corso dell’Arno nei pressi di Arezzo. Le quote dei rilievi del territorio, che formano lo spartiacque tra Toscana e Romagna, e fra val di Sieve, Val d’Arno e Casentino, anche se non elevattissimi sono comunque sufficienti a garantire una piovosità abbastanza intensa e un costante innevamento nei mesi invernali. Le falde acquifere di queste montagne sono dunque abbastanza ricche, e di conseguenza lo sono i torrenti da queste generate. I dati della portata della Sieve riportati dalla carta geologica danno, nei pressi di Rufina, una portata massima del fiume di 489mc/sec. L’elevate riserve idriche assicurate dalle abbondanti precipitazioni fanno si che la vegetazioni della parte più alta del territorio possa essere identificata con quella che, una volta, si definiva l’area delle Faggete: e qui si incontrano le magnifiche foreste del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. A monte dei castagneti non erao stati edificati paesi, non si praticavano attività agricole e l’unica forma di sfruttamento del territorio erano la pastorizzia e il taglio del bosco. Non era però infrequente che qualche pastore tentasse di coltivare il grano anche a quote superiori ai 1000m dove il suolo e il clima sono ancora meno adatti della zona dei castagni; ma gli sforzi per dissodare il terreno non erano ben ripagati, ma spesso il raccolto non restituiva neppure la quantità di seme impiegata. Il detto o il toponomi “pan perduto”, che si ritrova sia sugli appennini che sulle Alpi sta a ricordare i miseri risultati di questi tentativi. Fino agli anni ’60, le montagne erano popolato non soltanto da greggi di migliaia di pecore e dai loro pastori ma anche da boscaioli e carbonaio. Le Faggete erano governate a ceduo e venivano sistematicamente tagliate per ricavarne legna o carbone che lunghe file di muli portavano ogni giorno a valle. Ancora oggi lungo i sentieri si possono incontrare le piazzole delle carbonaie e i resti delle capanne dei pastori. In tempi più antichi le montagne erano coperte da fitte foreste di abeti bianchi, che costituivano una notevole risorsa per le popolazioni locali, e sotto il monte Seccheta, nella foresta di proprieta dell’abbazia di Vallombrosa, nacque nel Medioevo il primo esempio di selvicoltura razionale. Gli alberi venivano tagliati, trascinati con i buoi fino all’Arno o alla Sieve e trasportati a Firenze con la corrente nei periodi di maggiore portata dei fiumi. Una buona parte del legname di questi boschi fu utilizzata dalle carpenterie dell’Opera del Duomo di Firenze, ma ancora agli inizi del 900 esistevano nei pressi del Monte Falterona alcuni lembi di queste antiche foreste, il cui legname fu utilizzato per il fabbisogno bellico durante la guerra del 1915-18. Oggi nell’Aerea delle Faggete della montagna fiorentina l’abete bianco non è più così comune come prima, avendo lasciato al faggio il ruolo predominante. Le Faggete da anni non sono più governate a ceduo e formano grandi boschi ad alto fusto in cui oltre alle due sense di maggior diffusione, si incontrano spesso anche le cosiddette pianti nobili come l’acero di monte (Acer speudoplantanus), il frassino maggiore (Fraxinus excelsior) il sorbo montano (Sorbus aria), e dell’uccellatore (Sorbus aucuparia) e il tasso (Taxus baccata) .La fauna di questa parte di territorio risulta essere estremamente interessante:negli ultimi anni infatti,oltre alla lepre,sono tornati a popolare i boschi ed i prati il cervo ed il lupo.Il cervo aveva subito una drastica riduzione dell’aerale a seguito del disboscamento, della crescita demografica e della riduzione dei pascoli: intorno agli anni '40 era giunto a un passo dall'estinzione. Oggi è però saldamente attestato nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, che ospitano una delle maggiori popolazioni di cervi della Toscana.
Da qui gli animali si stanno spargendo sull’arco appenninico e attualmente sono stati avvistati anche nelle zone di Dicomano, Londa, Vallombrosa e Pratomagno.
A partire dagli anni '80 il cambiamento dell’ambiente e una maggiore disponibilità alimentare, dovuta all’incremento della popolazione di ungulati come capriolo e cinghiale, hanno reso possibile una graduale ripresa della popolazione, la cui presenza oggi è segnalata su tutto l’arco montano che va dal Falterona al Pratomagno, e sporadicamente sul monte Giovi.
L'avifauna è ben rappresentata, e sugli alberi delle foreste più isolate nidificano tordi e colombacci, e dove le condizioni dei torrenti lo permettono è presente anche il merlo acquaiolo.
II lupo, come si sa, è stato un’ingombrante presenza che ha accompagnato per secoli la vita dei montanari. Gli statuti di San Godenzo proibiscono la vendita delle carni di animali che sono stati uccisi dai lupi e dagli orsi. Secondo le credenze popolari, era sconsigliabile per le donne incinte mangiare carne di animali sbranati dai lupi, perché il nascituro ne avrebbe ereditato la voracità. Durante gli anni '70 questo predatore sia per i cambiamenti dell'ambiente, sia perché fatto oggetto di una caccia spietata, era stato considerato estinto sul territorio della provincia di Firenze; ma alcuni dati sui lupi che furono trovati morti fanno pensare che, anche se estremamente raro, il lupo fosse ancora presente fra Casentino, Romagna e Montagna Fiorentina.
Sono invece abbastanza frequenti le poiane e il gheppio, mentre la presenza del nibbio bruno e del falco pellegrino rimangono abbastanza sporadiche. Uno spettacolo purtroppo raro ma difficilmente dimenticabile è la migrazione del falco pecchiaiolo, quando centinaia dei grossi rapaci si posano nei campi per riposare, e altrettanto spettacolari sono i passaggi degli stormi di oche selvatiche.
Fra i rapaci notturni i più comuni sono l'allocco e la civetta, che ormai si ritrovano in tutti i boschi, ma nella parte alta del territorio s'incontra, purtroppo ancora abbastanza raramente, il gufo comune, mentre il gufo reale è una presenza sporadica.
Le caratteristiche di questo territorio, che interessa più o meno tutti i comuni della Montagna Fiorentina, sono tipicamente montane, con gli abitati situati in fondovalle e un'economia rurale basata sulla pastorizia e sullo sfruttamento delle foreste a monte dei paesi. Con la collaborazione della facoltà di Agraria e Scienze Forestali dell'Università di Firenze sono state introdotte nel territorio nuove pratiche colturali per limitare la diffusione della malattia, mentre contemporaneamente si tentava di dare uno sbocco al mercato del marrone. Oggi si possono apprezzare i risultati di queste iniziative: i castagneti sono ben coltivati, si sta attuando un graduale recupero di quelli abbandonati, ed è stato creato un marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) per il prodotto di questo territori.
Oggi, i seminativi che non sono stati rimboschiti o abbandonati producono fieno, e solamente i castagneti - che al pari di altre pratiche colturali durante gli anni '60 e '70 subirono le conseguenze dello spopolamento della montagna - mostrano ancora una buona salute. La ripresa di questa coltura è dovuta all'impulso datole dalle Comunità montane. A partire dal dopoguerra, la coltivazione dei castagneti da frutto aveva subito un pesante declino, non soltanto per lo spopolamento ma anche a causa del cancro del castagno (Endotia parassitica). Il castagneto da frutto è, dunque, una nota caratteristica della Montagna Fiorentina e rappresenta un ambiente che merita comunque una particolare attenzione, non tanto per le caratteristiche botaniche e naturalistiche, quanto per gli aspetti paesaggistici della "marroneta": con i castagni centenari, i prati digradanti, pulitissimi e privi di sottobosco, e le costruzioni in pietra, in cui da ottobre a dicembre si accendeva il fuoco per l'essiccazione delle castagne, è una delle componenti paesaggistiche più affascinanti della Montagna Fiorentina.
La vegetazione spontanea di quest'area è fortemente condizionata dal clima: l'elevata piovosità, il terreno spesso ripido e una conseguente diffusa erosione superficiale danno origine a suoli poco evoluti, abbastanza poveri e generalmente acidi, adatti perciò alle tipiche piante acidofile: il castagno, l’erica (Calluna vulgaris) e la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius). Fra le piante arboree dell’Area del castagneto l’essenza più diffusa è quasi certamente il carpine nero (Ostrya carpinifolia) che, insieme alla roverella (Quercus pubescens), al cerro (Quercus cerris), all’orniello, all'acero di campo e al castagno selvatico formano quel bosco che, governato a ceduo, ancora oggi viene tagliato per legna da ardere. In una buona parte dei vecchi pascoli sono stati realizzati rimboschimenti con abete rosso (Picea abies) e abete Douglas (Pseudotsu- ga menziesii), mentre il pino nero (Pinus nigra) e il pino silvestre (Pinus silvestris) sono stati utilizzati per rimboschire terreni sassosi o superfici degradate o erose.
La fauna di questa porzione di territorio è caratterizzata dalla massiccia presenza del cinghiale che, ricomparso durante gli anni '80 è ormai così diffuso da costituire spesso un problema per l'agricoltura, ma nei campi coltivati a fieno s'incontrano frequentemente caprioli e daini. Fra gli uccelli spicca senz’altro la ghiandaia, ma non sono rare le varie specie di picchio verde e rosso maggiore, mentre nei pressi dei prati e dei coltivati si possono incontrare le starne, i fagiani e le pernici.
A Pontassieve la Sieve confluisce nellArno che ha oramai terminato l'aggiramento del complesso montuoso del Pratomagno; per poter continuare l’escursione verso Reggello si deve risalire il corso dell'Arno stesso.
Lungo le rive dell'Arno e della Sieve si possono spessissimo osservare le nutrie, e la presenza di uccelli acquatici è, ad oggi saldamente attestata: in buona parte dell'anno l'avvistamento di germani, cormorani, garzette, aironi cinerini e anche del variopinto martin pescatore è diventato ormai abbastanza comune. Gli aironi sembrano avere un vasto territorio d’azione, e anche se prediligono i fiumi di maggiore portata risalgono spesso il corso dei torrenti e si possono incontrare anche in montagna.
Oltrepassato il torrente Vicano che sfocia nel fiume Arno nei pressi di Rignano, la valle si allarga suggerendoci la presenza di quello che, durante il Pliocene, era il grande bacino lacustre del Valdarno. Il lago, di origine tettonica, è stato progressivamente riempito durante il Plio-Pleistocene con sabbie, argille e ciottoli.
Alla base del Pratomagno sono visibili in più punti le conoidi di detriti fluviali che hanno concorso
buona parte al riempimento del bacino. Tutto il deposito, in seguito compattatosi, ha dato origine a degli insiemi eterogenei di ghiaie e sabbie, la cui erosione, in epoca tardo pleistocenica e olocenica, ha formato le suggestive piramidi di Reggello. Durante il Pleistocene il Valdarno era popolato da fauna di ambiente tropicale come l'elefante (Elephans meridionalis), il mastodonte (Mastodon arvensis) e la tigre dai denti a sciabola (Machairodus cultridens), i cui scheletri sono visibili presso il Museo di Storia Naturale dell'Università di Firenze. La parte più bassa del territorio è identificabile, secondo la vecchia classificazione delle aree vegetazionali, all’estremo limite di quella fredda del Lauretum che prende il nome dall’alloro (Laurus nobilis). In questa zona, soggetta spesso a siccitàestiva, la vegetazione arborea è caratterizzata dal leccio (Quercus ilex), dalla roverella (Quercus pube- scens), e dall'orniello (Fraxinus omus), ma si incontrano facilmente anche il cipresso (Cupressuss sempervirens) e l'alloro e talvolta anche il carpine nero (Ostrya carpini folia), indice dell'approssimarsi al limite superiore della fascia.
Le foglie di questi alberi sono dure e di un colore verde scuro, e la tessitura delle fronde abbastanza folta, cosicché la luce che filtra al suolo è generalmente poca. Il sottobosco perciò è scarso e il terreno è coperto da un mantello di fogliame che, data la consistenza delle foglie del leccio, stenta a decomporsi.
All'ombra di questo tipo di bosco la pianta che si incontra con maggiore frequenza è forse l'edera (.Hederá helix).
Ai bordi dei boschi e nei campi incolti vegetano rigogliosi, oltre a tutte le possibili varietà di rovo (Rubus), la ginestra di Spagna (Spartium junceum), il prugnolo (.Prunus spinosa), la rosa canina e talvolta anche il biancospino (Crataegus monogyna) o il sanguinelle (Comus sanguinea).
Una tipica presenza è anche quella dell’acero di campo (Acer campestris), già usato per ‘maritare’ la vite.
In una considerevole parte della zona bassa del territorio si assiste al progressivo espandersi di essenze come l’acacia (Robinia pseudoacacia), che sta colonizzando la zona dei calanchi di Reggello, o l’ailanto (Ailanthus altissima), a discapito degli alberi originari del territorio. Sembrano anche destinate a diventare rare tutte quelle piante che, come il tiglio (Tilia chordata) o il gelso (Morus nigra) per la produzione dei bachi da seta, venivano piantate presso le case e lungo le strade.
Per la fauna, fra i mammiferi che popolano questa parte del territorio si possono ricordare l'istrice, il più grande roditore presente in Italia, che ormai è saldamente attestato su tutto il territorio, il cinghiale, il capriolo e il daino e la lepre, mentre fra gli uccelli è opportuno ricordare la tortora, che popola i boschi e i campi durante i mesi estivi, e il barbagianni che nidifica abitualmente in una zona compresa fra il fondovalle ed i 600 metri di quota. Ma il territorio della Montagna Fiorentina interessato da questo tipo di clima e di vegetazione è anche quello della vigna sono le terre in cui si producono l’olio di Reggello e i rinomati vini Chianti Rufina e Pomino, le terre della Toscana della mezzadria in cui, nonostante una certa recente inversione di tendenza, l'abbandono delle campagne ha cambiato l'ambiente e l'uso del suolo. Oggi la coltivazione del grano è stata quasi abbandonata per far posto al foraggio o agli arboreti da frutta, e nei seminativi collinari sono impiantati oliveti e vigneti, ma le moderne coltivazioni, frutto sia della morfologia del territorio sia del retaggio culturale del popolo toscano, si sono orientate verso quella nicchia del mercato che privilegia l'elevata qualità rispetto alla produzione di massa.
Così il paesaggio di questa parte della Montagna Fiorentina, caratterizzato dal colore argenteo del fogliame dell'olivo e dagli ordinati filari delle vigne, pur essendo stato modificato dalla rarefazione dei seminativi, mantiene inalterato il tipico fascino della campagna toscana, e risulta talvolta impreziosito dalla vista delle montagne coperte di abeti e di faggi incredibilmente a portata di mano.